martedì 8 novembre 2011

Genova per noi…

Tratto dal sito L'Olandese Volante http://www.lolandesevolante.net/?p=979

di Carlo Bertani

“…acqua che stringe i fianchi, tonnara di passanti…”

Fabrizio de André – Dolcenera – dall’album Anime salve – 1996

“I naturalisti non hanno davvero nessuna colpa se gli uomini mancano di auto comprensione. Giordano Bruno è stato bruciato perché diceva che gli uomini sono, insieme al loro pianeta, solo un granello di polvere fra innumerevoli altre nuvolette di polvere.”

Konrad Lorenz

Nihil sub sole novum

Ecclesiaste





E’ il 4 Novembre ed ho appena visto il TG3 delle 19, quello nel quale il Befehlshaber von Genoa, Frau Marta Vincenzi, dichiara che è stata una cosa improvvisa, che la situazione li ha colti di sorpresa: quando passeggi sulla strada ferrata, prima o dopo un treno ti coglie certamente di sorpresa. Il problema, allora, non è più il tempo di preavviso o la velocità di svolgimento dell’evento, bensì la consapevolezza di camminare su una ferrovia, quella cosa sulla quale corrono i treni: veloci, duri e pesanti.

Tornano alla mente giorni lontani, immagini in bianco e nero che si distinguono dall’oggi soltanto per l’assenza del colore e per le automobili, così diverse: per il resto – se non ci fossero i colori sgargianti delle carrozzerie spinte via dalla corrente – tutto potrebbe tornare in bianco e nero, perché il fango è sempre grigio, con qualche nuance gialla e marrone, nero se è misto a gasolio. Grigi i palazzi, grigia l’acqua, torbida e veloce sui passeggi, con i visi ignari degli ultimi passanti: gli spauriti “tonni” che rischiano la tonnara e la camera della morte.

Era il 5 Ottobre del 1970, quando su Genova s’abbatté una marea d’acqua come oggi: medesime le cause, stessi gli effetti. Differenze? Sì, e non di dettaglio.

Genova non è mai stata considerata capitale di cultura come Firenze, seppure i suoi palazzi – il centro storico più vasto d’Europa – grondino Storia da ogni macchia sui muri spenti dal tempo, da ogni lesena in pietra di Lavagna corrosa dal salso e dal tempo, dagli occhi d’ogni Madonnina votiva incastonata nell’angolo fra due carruggi. Un tempo pregate e salutate da marinai che partivano per l’ignoto, oggi da viados brasiliani che non sanno cosa chiedere: se sopravvivere in quel tornado di sesso pesato con la stadera oppure chiudere gli occhi, nell’ultimo afflato della loro infinita saudade.

La Storia, per Genova, ha riservato il destino dei figli di un Dio Minore – mai così attuale – perché, della Firenze Rinascimentale, ricordiamo sì l’Arte – quella non manca quasi ovunque, nel Belpaese – ma, soprattutto, il “fermento bancario” che la condusse a prestar soldi ai Re inglesi per la guerra dei Cent’Anni e ad Amerigo Vespucci per acquistare la Santa Maria di Colombo.

Insomma, il destino dei fiorentini si legò al commercio superando le antiche categorie delle merci per sublimarle nel loro dorato simulacro: la moneta. A Genova – oggi, diremmo privata di Wall Street – rimase la Main Street dei suoi moli, delle caracche, dei barchi e dei leudi che portavano di tutto dappertutto.

Genova non fu mai così nobile da partecipare ad un’azione militare di “gran valore”: alla battaglia di Lepanto, Andrea Doria lasciò che le sue navi si lasciassero scadere al vento, e non partecipò allo scontro.

Per contro, quando i pirati del bey di Algeri uccisero gli equipaggi d’alcune navi genovesi per impadronirsene, i genovesi organizzarono una strafe Expedition: presero a loro volta delle navi del bey, uccisero tutti gli occupanti e mozzarono loro le teste per, infine, abbandonare di fronte ad Algeri una nave zeppa di teste mozzare sotto sale.

Da quel momento in poi, le navi del bey non osarono più abbordare le navi con i colori di Genova e…cosa fecero i genovesi? Vendettero la loro bandiera agli inglesi

, che poterono così navigare indisturbati nel Mediterraneo.

Una simile storia alle spalle non poteva generare altrettanto nobili “Angeli del Fango” come quelli fiorentini: da un lato banchi e pergamene, lettere e contabili. Dall’altro barili e cime, vele e spingarde: no, due mondi troppo diversi.

Al punto che il carattere genovese si chiuse come un riccio di mare, si nascose come la murena nella sua tana: pronto ad azzannare, con la spada o con la penna. Sarà un caso che gran parte della satira (e tanto altro) porti i colori genovesi? Da Crozza a Gassman, da Villaggio a Fabrizio, da Bindi a Paoli, alla Pivano, a Lauzi, a Fossati, al “naturalizzato” Tenco…e tanti altri.

Così, gli “angeli del fango” di Genova presero un altro nome, quello degli “angeli col fango sulle magliette”, perché – belin, siamo a Genova e le palanche sun palanche – per viaggiare gratis sui tram e raggiungere le zone da spalare bisogna avere un segno di riconoscimento: pala e stivali vanno bene, ma le cinque dita di fango sulla maglietta sono il vero logo. Furono quasi solo liguri quelli che scavarono a Genova: al massimo, scese qualche piemontese, sempre per quel fascino del mare che “non sta fermo mai”.

A distanza di tanti anni, il viso di Fabrizio che fuma l’immancabile sigaretta con le mani sporche di fango saluta, dalla loro pagina su Facebook, e sottende un mondo.

Esisterà ancora un barlume di quel mondo, di quella voglia di donarsi per gli altri senza chiedere nulla in cambio, “non al denaro, non all’amore né al cielo”? Ecco la vera, forse l’unica differenza con il 1970: generazioni stufe, prese in giro, rapinate di valori e speranze…potranno mai ritrovarsi in quegli afflati senza sentirsi i fessi di turno?

Questa è una notte buia, verso la collina e verso il mare, e sono inquieto.

Non è l’ennesimo allarme inondazione per il Ponente Ligure a rendermi ansioso, ma l’aria elettrica che, ogni tanto, si materializza in un lampo accecante, che illumina il golfo fino al lontano Capo Noli. Dal terrazzo, però, non posso scorgere Genova, oscurata da un colle.

Eppure so che è là, ad un tiro di cannone, con le sue petroliere nell’attesa di scaricare a Multedo, con le sue portacontainer che aspettano il loro turno per avere un posto in banchina, con i veloci traghetti che vanno e vengono, fin quando il mare lo consente.

E, ancora una volta, con le sue ferite, che il sindaco definisce provocate da “cause improvvise”.

Sarebbe l’ora di smetterla – qui, destra e sinistra non c’entrano nulla – di pensare che una città di più di mezzo milione d’abitanti possa vivere indisturbata in un bacino orografico così tormentato, dalle poche fiumare ai mille rigagnoli.

Tutta la Liguria è in queste condizioni: basta una rapida riflessione per capirlo.

La distanza fra il mare ed i passi appenninici s’aggira intorno ai 10 chilometri in linea d’aria: con quale dislivello?

Si va dai 300 metri dei passi più accessibili, ai 500 metri (in media) della cordigliera appenninica fino ai quasi 1.300 metri della “vetta” ligure appenninica, il monte Beigua, alle spalle di Varazze. Dalla cima del Beigua sembra quasi, spiccando un salto, di tuffarsi in mare: 1.300 metri sotto.

La cordigliera appenninica rappresenta anche lo spartiacque fra il bacino del Tirreno e quello dell’Adriatico, cosicché, se fai pipì dieci metri a Sud dello spartiacque la tua urina finirà, prima o dopo, nel Tirreno: se, invece, la fai dieci metri a Nord, finirà – sempre prima o dopo – in Adriatico.

Ecco: il problema è tutto in quel “prima o dopo”.

Da un lato circa dieci chilometri, dall’altro circa trecento: la velocità di scorrimento è dunque, pressappoco, di uno a trenta.

Sul versante adriatico i rigagnoli hanno tempo e spazio per organizzarsi in torrenti, poi in fiumi, infine nel grande fiume, il Po. Sul versante tirrenico qualche rigagnolo va ad ingrossare una fiumara, mentre altri corrono diretti al mare, seguendo l’orografia tormentata di valli, vallette, contrafforti, ecc, tutto in dieci chilometri ed a velocità x30.

Prendete un simile luogo e sbatteteci sopra un immaginario “arco” – pesante miliardi di tonnellate – di cemento lungo 30 chilometri e largo 5, da Voltri a Nervi: cosa potrebbe mai rimanere immutato? Come si può pensare di costruire palazzi direttamente sull’alveo coperto dei torrenti?

In quasi tutta la Liguria, le strade sono anche scolo per le acque: l’Aurelia Romana – che è oggi diventata la via dove abito ad Albisola – durante gli acquazzoni si trasforma in ruscello e scarica nella fiumara che va in mare, esattamente come i rigagnoli.

Perché, qui, il sistema funziona?

E’ soltanto una questione di densità abitativa e di dimensioni: se torrenti e rigagnoli non sono stati ricoperti di cemento ed asfalto, fanno il loro dovere – magari esondando, e allagando qualche campo – mentre le strade convogliano il resto, senza diventare dei fiumi in piena. Meglio non fare troppo affidamento sulle condutture del sistema fognario, “robetta” di qualche decimetro di diametro.

Il sistema può funzionare perché un borgo è più “disteso” sul territorio ed ha una minor densità abitativa, mentre una media città come Savona può ancora farcela, al prezzo di qualche alluvione mai devastante come quelli genovesi: là, quei miliardi di tonnellate di cemento che seppelliscono letteralmente la rete degli scoli naturali per decine di chilometri, rende l’alluvione un fatto “normale”. Altro che improvviso.

Che fare?

La prima riflessione è d’ordine architettonico: la rivoluzione industriale impose le grandi concentrazioni, che oggi non sono più necessarie come un tempo. Concentrare individui significa spostare risorse, poiché – a grandi linee – le principali risorse sono distribuite in modo uniforme sul territorio, basti pensare alle sorgenti.

Il “mix” concentrazione degli individui ed abbandono del territorio è la causa primigenia dei disastri, che richiedono poi onerosi interventi di ripristino: anche la manutenzione è onerosa e, con i chiari di luna del giorno d’oggi, sono le prime voci di bilancio ad essere tagliate.

Come uscirne?

Non si può pensare di “smontare” dall’oggi al domani una città come Genova, e sarebbe ingiusto farlo anche per altre ragioni – non solo commerciali (porto, ecc) – ma di tipo culturale: Genova è un pezzo di Storia “pratica” del nostro Paese, è l’essenza del pragmatismo che – come ricordavamo sopra – fugge ai suoi limiti nella poesia, nel teatro, nella musica.

La Storia, per nostra fortuna, non è soltanto una sequela di date e di battaglie, bensì d’eventi e di tradizioni: se scorriamo gli annali del secolo scorso, scopriamo che in Liguria era installato un discreto potenziale idroelettrico, fatto di mille piccoli impianti. Ovvio che, se la velocità dell’acqua – rispetto al versante padano – è x30, l’energia in gioco sarà di pari grado: stupirà sapere, ad esempio, che a due chilometri da casa mia – meno di tre dalla battigia – c’è una diga. Ovviamente, abbandonata: sul potenziale idroelettrico ligure torneremo con un articolo ad hoc.

L’unico modo per salvare le città liguri è una prevenzione a monte: a poco serve la pulizia e la manutenzione degli alvei, se la velocità dell’acqua non diminuisce. Un tempo, erano le migliaia di “fasce” coltivate a rallentare naturalmente la velocità delle acque: ritornare alla terra, al bosco?

Certo, con le attuali ristrettezze economiche non è certo un’idea azzardata, ma si può anche agire sulle acque raccogliendole, convogliandole e sottraendo loro la velocità, per trasformarla in energia elettrica: in altre parole, passare ad un controllo integrato flussi/energia dei bacini idrografici.

Il concetto da seguire – se si vuole fare seriamente prevenzione – è quello di farla in modo intelligente, ricavandoci dei quattrini per ridurre le spese: in qualche caso, addirittura, per guadagnarci e c’è chi lo ha fatto.

Ci sono aziende che producono turbine idroelettriche di tutte le taglie e d’ogni tipo, vi sono comuni con le casse vuote, corsi d’acqua senza controllo che scaricano la loro energia sulle case: vogliamo fare qualche scelta intelligente?

Sull’esempio, già proposto per l’eolico, dei “bond energia” di piccola taglia – diretti all’azionariato popolare – i comuni potrebbero individuare le fonti energetiche che sono, sull’altro versante, le cause dello scempio idrogeologico: hanno fior di studi tecnici.

A quel punto, la raccolta finanziaria gestita dallo Stato sarebbe convogliata sui progetti con duplice scopo: ricavare energia, dirottare parte dei guadagni su un fondo “bloccato” per scopi sociali ed un’altra per le necessarie opere di prevenzione e contenimento.

Serve un progetto nazionale, di largo respiro, coerente, una programmazione nel tempo, apposite leggi…e cosa ci stanno a fare i mille signori/e che siedono in Parlamento? Le migliaia di funzionari e tecnici dei Ministeri e degli Enti Locali?

Suvvia, sindaco Vincenzi, non si faccia prendere dall’ansia e non faccia dichiarazioni avventate, perché gran parte degli italiani oramai sa come vanno queste cose: “risparmi”, “tagli” e quant’altro, fino alla tangente sulla tangente.

Soprattutto, non affermi che un evento è “improvviso”: lo rammenti, qualora dovesse camminare su una strada ferrata, perché – ad intervalli regolari – i treni giungono sempre “all’improvviso”.

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