martedì 18 novembre 2008

La fuga dei cervelli

Se il futuro è nei giovani, maledetto è quel paese che fa di tutto per osteggiarli, prima o poi avranno la loro rivincita, e quei vecchi (classe politica) che tanto li hanno osteggiati, dovranno pagare caro il prezzo della loro ostilità. Forse dimenticano di essere stati a loro volta giovani e negando ad altri quelle stesse opportunità che a loro sono state concesse, non fanno altro che danneggiare se stessi togliendo la possibilità di un futuro alle prossime generazioni.

Tratto dal blog di Cattaneo: http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/

Mille (e più) testimoni scomodi

Postato in Prospettive, Politica della scienza il 18 Novembre, 2008

Da due giorni, a fasi alterne, mi perdo a leggere le storie di cervelli in fuga raccontate su Repubblica.it. Ormai hanno superato il migliaio, e a ogni racconto che si aggiunge crescono i tormenti, la rabbia, l’incredulità. Non riesco a credere che questo paese – specialmente negli ultimi vent’anni, ma in realtà per tutta la storia repubblicana – abbia avuto una classe dirigente, dai politici agli imprenditori, che ha fatto tutto il possibile per ipotecare il futuro.

Giovani con un dottorato in tasca che da noi non riescono a trovare uno sbocco né in università né presso i privati, che di un dottore non sanno bene che farsene. Qualcuno si ostina a sperare, e fino a quarant’anni “tira la carretta” al suo mentore, di solito un professore ordinario non lontano dalla settantina, guadagnando poco più di mille euro al mese. Mentre il suo compagno di corso, ugualmente brillante, decide di provare l’avventura all’estero. E a quarant’anni si trova in cattedra – in Germania, in Olanda, in Francia, negli Stati Uniti – perché ha avuto i fondi per fare ricerca d’avanguardia, perché ha potuto lavorare, pubblicare, darsi da fare. Perché se qualcuno non lo avesse capito questi giovani stanno cercando un’opportunità per lavorare, non per girarsi i pollici…

Sono tante le cose che ti frullano in mente davanti a tante testimonianze. La prima è che stiamo assistendo a un flusso migratorio imbarazzante per un paese che si vanta di essere nel G8: all’inizio del Novecento, l’italiano che emigrava era quello con le scarpe bucate e la scatola di cartone; oggi sono i dottori di ricerca, gli ingegneri, i fisici, i matematici. In cambio importiamo – e continueremo a farlo, checché lo vogliano i leghisti – badanti, ambulanti e manodopera non qualificata.

Il secondo pensierino è puramente contabile: dato che uno studente, dall’asilo alla laurea, ci costa da 200.000 a 250.000 euro – li costa allo Stato – a occhio e croce solo con questi mille abbiamo regalato ad altri almeno 200 milioni di euro. E non mi sembra che questo paese sia così in salute, sotto il profilo economico-finanziario, da poter permettere omaggi così onerosi.

Poi penso che in altri paesi continua a esserci un’altissima considerazione del lavoro degli scienziati, o meglio degli studiosi in genere. Da noi, invece, sono considerati quasi un fardello. C’è chi invoca di mandarli a lavorare, chi pensa “poveretti”. E mentre i vertici si riempiono la bocca di formule ambiziose come “innovazione” e “società della conoscenza”, la realtà ci vede correre incontro al passato a una velocità sconfortante.

Questa mattina, uscendo di casa, ho trovato una lussuosissima macchina nera parcheggiata in doppia fila accanto alla mia. Full optional, 3500 cc di cilindrata. Mentre cercavo il proprietario per chiedergli di spostarla, dal negozio di fianco è uscito il macellaio sfilandosi di corsa il camice bianco e aprendo le portiere luccicanti con il telecomando. Con tutto il rispetto per un lavoro fatto di sudore e sacrifici, non riesco a fare a meno di pensare che un professore associato in Italia guadagna 1900 euro al mese dopo quattro anni di anzianità. Di solito a questo livello di carriera ci si arriva a cinquant’anni, o giù di lì, e in Università ci si va con una Panda vecchia di dodici anni. Chissà, mi sono detto, magari il figlio del macellaio studierà e, ragazzo brillante e di talento, proverà una carriera universitaria. Per trovarsi, a quarant’anni, a dover fare affidamento sui risparmi del padre – orgoglioso di quel figlio scienziato come mio padre operaio lo era di me – per sbarcare il lunario.

E questo è l’ultimo pensierino della giornata: un paese in cui l’istruzione non è più un mezzo di promozione sociale è un paese condannato al declino.

Ecco poi quanto scrive un premio Nobel italiano emigrato nel 1947 negli Stati Uniti, sono passati ormai 51 anni, ma nulla è cambiato, anzi forse la situazione è peggiorata:

Sulla fuga dei cervelli
è il momento di cambiare

di Renato Dulbecco


HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel '75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all'appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza.

Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all'estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l'immobilismo di un'Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.

Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c'è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l'organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all'innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.

Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L'Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.

Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.



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